Raccomandazioni per il personale sanitario
Documento approvato in seduta plenaria dall’Osservatorio dedicato alla Medicina di Genere in data:
16 giugno 2022
Redazione a cura del Gruppo di Lavoro “Diseguaglianze di salute legate al genere” con la
collaborazione dei/delle seguenti esperti/e:
• Dott.ssa Maria Augusta Angelucci, Dipartimento Salute Donna e Bambino, AO San Camillo
Forlanini, Roma
• Dott. Claudio Giovannini, Centro di Riferimento per la Medicina di Genere, Istituto Superiore di
Sanità, Roma
• Prof. Walter Malorni, Centro per la Salute Globale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
• Dott.ssa Raffaella Michieli, Medico di Medicina Generale esperta in Medicina di Genere
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Indice
1. POPOLAZIONE STRANIERA IN ITALIA ……………………………………………………………………………. 3
1A. PROVENIENZA …………………………………………………………………………………………………………………..3
1B. ETÀ………………………………………………………………………………………………………………………………..3
1C. SITUAZIONE NELLE SCUOLE ITALIANE………………………………………………………………………………………….3
1D. DISTRIBUZIONE SUL TERRITORIO ITALIANO ………………………………………………………………………………….3
1E. RELIGIONI PROFESSATE …………………………………………………………………………………………………………4
1F. CONDIZIONI SOCIO-ECONOMICHE …………………………………………………………………………………………….4
1G. COVID-19………………………………………………………………………………………………………………………5
2. LE VARIABILI ETNICO-RELIGIOSE………………………………………………………………………………….. 5
3. LA MEDICINA TERRITORIALE ………………………………………………………………………………………. 8
3A. LA COMUNICAZIONE CON GLI/LE UTENTI STRANIERI/E IN MEDICINA GENERALE: PRINCIPALI CRITICITÀ……………10
4. CARATTERISTICHE E PROBLEMATICHE DELLA IMMIGRAZIONE FEMMINILE………………………… 12
5. DISUGUAGLIANZE E ALTRE MINORANZE……………………………………………………………………… 14
6. ALCUNE NECESSITÀ E RACCOMANDAZIONI PER I MEDICI E PERSONALE SANITARIO ……………. 16
7. ATTENZIONI PER GLI OPERATORI SANITARI …………………………………………………………………. 17
BIBLIOGRAFIA …………………………………………………………………………………………………………… 18
NOTE……………………………………………………………………………………………………………………….. 19
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1. POPOLAZIONE STRANIERA IN ITALIA
Gli stranieri in Italia rappresentano una minoranza consistente della popolazione. Secondo le
Elaborazioni e stime ISMU su dati ISTAT, al 1 gennaio 2021 il totale degli stranieri presenti in Italia è
di 5.756.000, gli stranieri residenti sono 5.013.000 a cui vanno aggiunti gli stranieri con regolare
permesso di soggiorno ma non residenti cioè non iscritti all’anagrafe di alcun comune italiano,
circa 224 mila persone, e gli stranieri immigrati non regolari, non provvisti di permesso di soggiorno,
la cui stima attendibile è di 519.000 (Rapporto annuale sulle Migrazioni, Fondazione ISMU), il 10%
circa degli stranieri regolari. Dei 5.013.000 immigrati residenti in Italia, la maggioranza (51,7%), è
costituita da donne provenienti per l’80% dall’Ucraina, dalla Georgia e da diversi Paesi dell’Est Europa.
Gli uomini sono il 48,3%, mentre i minori rappresentano il 20,3% del totale.
1a. Provenienza
Il gruppo nazionale più numeroso è rappresentato dai rumeni (1.138.000), seguono albanesi (circa
410.000), marocchini (408.000), cinesi (289.000), ucraini (229.000), filippini (156.000), indiani
(154.000), bangladesi (140.000), egiziani (130.000), pakistani (123.000).
Tra gli stranieri residenti in Italia solo il 30% proviene da un paese della Unione europea. I cittadini
non comunitari sono circa 3,6 milioni, il 70 % della popolazione straniera residente, tra questi gli
albanesi costituiscono il 11,6 %, a seguire si ha l’11,5 % dei provenienti dal Marocco, il 5,4 % dalla
Repubblica Popolare della Cina, il 4,6 % dall’Ucraina.
1b. Età
La popolazione straniera è notoriamente molto giovane (età̀media sotto i 34 anni), anche se con
notevoli differenze per le diverse collettività̀. I ragazzi tra 0 e 14 anni hanno un’incidenza superiore di
5 punti percentuali rispetto a quella degli italiani. La classe di età tra 15 e 39 anni incide per circa il 45
% sul totale della popolazione straniera, mentre per quella italiana solo per il 26,2 %. Nella fascia di
età dai 65 anni in su il 3% della popolazione totale è costituito da stranieri mentre il 23,7% dagli
italiani.
1c. Situazione nelle scuole italiane
Gli studenti con cittadinanza non italiana nell’anno scolastico 2019/2020 sono, in valori assoluti,
876.801, il 10,3% del totale, di cui il 64,4% è nato il Italia ma non ha avuto accesso alla cittadinanza.
Quasi un quarto dei figli di immigrati, nell’età 3-5 anni, non frequenta la scuola dell’infanzia. Il 30%
degli studenti stranieri è in ritardo scolastico a fronte del 9% degli italiani. Il 32% dei ragazzi stranieri
tra i 18 e i 24 anni abbandona gli studi contro l’11,3% dei ragazzi italiani.
1d. Distribuzione sul territorio italiano
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La maggioranza degli immigrati vive al Nord (58,5%), il Nord Est e il Centro si aggirano entrambi
intorno al 24,5%, mentre nel Sud e nelle isole sono il 12,1% e il 4,8%.
Le prime cinque regioni sono: la Lombardia (22,9% della popolazione straniera in Italia), seguita da
Lazio, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. Capitale dell’immigrazione è Roma, in cui risiede il 10%,
seguita da Milano (9,2%) e Torino (4,2%).
1e. Religioni professate
La migrazione in Italia, rispetto a quella avvenuta in altri Paesi europei, ha alcune peculiarità: il breve
periodo (circa trenta anni) in cui si è sviluppata e radicata fino ad essere un dato strutturale del Paese;
la grande pluralità dei paesi di provenienza dei migranti (oltre 200 Paesi di tutti i continenti);
l’appartenenza dei migranti a confessioni diverse da quella Cattolica, quali Cristiano-Ortodossa,
Cristiano Protestante, Musulmana, Induista, Buddhista, la Sikkista e le varie confessioni animiste.
Dai dati della Fondazione ISMU del 1° gennaio 2021 si stima che tra gli stranieri residenti attualmente
in Italia, 2.900.000, il 56,2% appartengono a religioni cristiane. La componente cristiana è costituita
in maggioranza da ortodossi che rappresentano il 57,5% dei cristiani, pari ad oltre 1.600.000, il 32,3%
degli stranieri, originari soprattutto della Romania, Ucraina e Moldova. Seguono i cattolici, circa
866.000, pari al 30,3% degli stranieri cristiani, per lo più romeni, filippini, peruviani e albanesi. Di
religione islamica sono 1.400.000 (il 27,1% del totale), in maggioranza provenienti da Marocco,
Albania e Bangladesh. Sono di religione buddista 144.000 stranieri (2,8%), di religione indù 102.000
(2,0%), i sikh sono 98.000 (l’1,9%) e 47.000 appartengono ad altre religioni (0,9%). Gli atei e gli
agnostici sono circa 461.000 (9%).
1f. Condizioni socio-economiche
Gli stranieri sono lavoratori dipendenti per l’87%, concentrati soprattutto in alcuni settori: servizi
collettivi e personali (642.000 addetti), agricoltura (584.000), industria (466.000), alberghi e ristoranti
(263.000), commercio (260.000) ed edilizia (235.000). Seguono gli addetti all’assistenza personale
(179.500), i collaboratori domestici e professioni assimilate (111.500). Per quel che riguarda le
tipologie contrattuali, preponderante è il reclutamento con forme contrattuali temporanee.
Negli ultimi due anni, causa il susseguirsi di crisi economiche/finanziarie e in ultimo della pandemia
da Covid-19, sono aumentati il numero di indigenti, senzatetto, nuovi poveri tra i cittadini sia italiani
che stranieri. Tale fenomeno ha maggiormente interessato le minoranze presenti sul territorio
nazionale provocandone il peggioramento delle condizioni socio-economiche.
Proprio la popolazione immigrata è stata quella maggiormente esposta alla povertà, soprattutto con
l’arrivo della pandemia: oggi riguarda il 29,3% degli stranieri (rispetto al 7,5% degli italiani),
risulta indigente più di una famiglia su quattro (il 26,7%, in aumento del 2,3% rispetto agli anni
precedenti il Covid), a fronte di un’incidenza del 6% registrata tra le famiglie di italiani.
Il tasso di disoccupazione dei cittadini stranieri (13,1 per cento) è superiore a quello dei cittadini
italiani (8,7 per cento), mentre il tasso di occupazione degli stranieri (60,6 per cento) si è ridotto più
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intensamente. I giovani e le donne sono i gruppi più svantaggiati. Oltre 9 giovani su dieci svolgono un
lavoro a bassa qualifica e a bassa retribuzione. Le donne immigrate hanno sofferto la crisi
maggiormente, tanto che la riduzione del tasso di occupazione femminile tra le straniere è due volte
maggiore di quello dei maschi.
1g. COVID-19
Il Covid ha fatto registrare numeri alti di contagi sui luoghi di lavoro anche tra gli immigrati. Dall’inizio
della pandemia al 31 marzo 2021, sono stati 165.528 i casi di coronavirus registrati, secondo le
denunce presentate all’Inail. Il 69,3% di questi ha interessato le donne, il 30,7% gli uomini. L’età media
dall’inizio dell’epidemia è di 46 anni per entrambi i sessi. A influire sui numeri del contagio anche il
più basso tasso di vaccinazione tra la popolazione straniera che non ha seguito la stessa tempistica di
quella degli italiani, la complessità per accedere alle prenotazioni on line, e la mancanza di tessera
sanitaria per alcuni gruppi.
La pandemia, come è noto, ha acuito l’esposizione della popolazione straniera ad atti di violenza e
sfruttamento rendendola di fatto più invisibile e meno libera di potersi sottrarre alle aggressioni e ai
condizionamenti. Da sottolineare che ciò si è registrato con maggiore evidenza tra le donne
immigrate, che attualmente rappresentano la metà di quelle assistite nei centri antiviolenza e un
55%-60% delle ospiti delle case rifugio.
2. LE VARIABILI ETNICO-RELIGIOSE
Gli immigrati presenti sul territorio nazionale provengono da più di 200 Paesi dai diversi Continenti. La
maggioranza degli immigrati pratica fedi religiose diverse da quella maggioritaria professata in Italia,
rendendo il quadro di intervento per le nostre istituzioni piuttosto complesso proprio per le molteplici
problematiche rappresentate oltre che dalla religione, anche dalle credenze culturali del paese di
provenienza, dalle usanze, dalle tradizioni dell’etnia di appartenenza.
In ogni individuo si intrecciano, in modo differente, cultura nazionale, storia e relazioni familiari, titolo
di studio, appartenenza religiosa, progetti migratori, caratteristiche soggettive, salute psichica e
fisica, situazione economica, rapporti sociali, grado di inclusione o di emarginazione.
Tutto ciò pone temi particolarmente complessi nelle relazioni tra le popolazioni di migranti o di
origine migrante, e l’organizzazione dei servizi sanitari italiani.
Realtà culturali, tradizioni e sistemi di valori sono spesso non adeguatamente conosciuti dagli
operatori italiani, che intervengono nei vari settori: scuola, sanità, amministrazione, istituti di pena.
Anche a causa del perdurare di stereotipi e pregiudizi.
Il diritto degli individui, non solo dei cittadini, di accedere alle cure sanitarie è un principio che trova
il proprio fondamento in primo luogo nell’art. 32 della Costituzione Italiana.
Il diritto alla salute è diritto universale, tuttavia, sono diversi gli ostacoli che impediscono alla
popolazione immigrata di accedere ai servizi di cui possono usufruire: le barriere linguistiche e
culturali, la limitata conoscenza delle regole e del funzionamento del SSN, la diffidenza verso un
sistema sanitario che non viene riconosciuto come proprio, nonché le difficoltà e le incomprensioni
incontrate nel rapporto con gli operatori sanitari.
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Proprio la difficoltà di interazione e di comunicazione nel rapporto tra operatore e immigrato resta
un problema che ancora investe tutto il nostro SSN. Anche se in modo diverso tra regione e regione,
le cause derivano indubbiamente dagli insufficienti e/o inadeguati investimenti in risorse sia
economiche che umane in sanità pubblica, con conseguente carenza nell’adeguamento dei servizi e
nella formazione del personale sanitario addetto. La maggior parte dei servizi mostrano ostacoli non
solo di tipo linguistico, ma anche scarsa disponibilità in versione multilingue delle norme in vigore per
accedere ai servizi del SSN anche per migranti regolari.
I concetti di salute e di malattia, le differenze di genere, le aspettative di cura e terapia assumono
significati e valenze anche molto variegati con una conseguente pluralità di comportamenti, che
vanno costantemente indagati e considerati.
Per fare alcuni esempi, necessariamente schematici, nell’Ebraismo la malattia viene considerata
come una mancata osservanza delle disposizioni divine e quindi conseguenza di una scarsa attenzione
della persona in merito a prevenzione e cura, e quindi accettata come parte della propria natura e
come prova inviata da Dio.
Per l’Islam è fondamentale la prevenzione poiché la malattia è testimonianza di uno stato di squilibrio
dell’individuo nel suo insieme e quindi uno strumento di autocritica e spinta per il miglioramento
personale sia spirituale che fisico.
Nelle religioni orientali il benessere è la risultanza dell’armonia della persona, non solo a livello
individuale ma anche in relazione all’ambiente in cui vive; mentre la malattia è stimolo per la
riconquista di tale armonia. Benessere e malattia vanno considerate e accettate come prove della
non permanenza o transitorietà dello stato dell’individuo e della natura.
Il concetto di salute e malattia possono essere diversi tra donne e uomini e nelle differenti culture.
La percezione della malattia, il tipo di cure e l’accesso e fruibilità ai servizi sociosanitari sono molto
diversi nelle varie regioni del mondo ed in particolare rispetto ai sistemi sanitari europei, di
conseguenza il confronto tra utenti immigrati e strutture europee si traduce, in molti casi, nel
confronto tra sistemi medici profondamente diversi e tra diverse concezioni del rapporto sintomomalattia-terapia. Ciò genera incomprensioni tra curante e curato se il personale sanitario è
strettamente aderente ai protocolli terapeutici in essere e rifiuta un approccio consapevole delle
differenze tra culture, delle pratiche, del vissuto e delle credenze di chi viene da altri paesi.
L’assenza di valutazione dei determinanti culturali e di genere mette a rischio l’aderenza alle cure e
l’efficacia terapeutica dell’intervento sanitario.
L’intreccio tra cultura e religione di cui la popolazione degli immigrati è portatrice, tende a persistere
e ad essere tramandato di generazione in generazione anche quando le situazioni cambiano, in
quanto permane il ruolo identitario, di aderenza alle proprie tradizioni e di coesione. Questo può
spiegare in parte la presenza, in molti gruppi di immigrati, di pratiche di cura legate alla cultura
d’origine, talvolta preferite a quelle offerte dal SSN. Esse sono spesso indotte dalla famiglia o dalla
comunità di appartenenza, anche a livelli non espliciti, nel solco di tradizioni educative, psicologiche
e comportamentali, che vanno inevitabilmente a confliggere con la medicina ufficiale del paese
ospitante.
In caso di malattia, infatti, esiste e perdura una sostanziale diffidenza verso la medicina occidentale.
Questo è particolarmente evidente per alcuni gruppi di immigrati provenienti da Paesi orientali ed
africani, che continuano a utilizzare prodotti terapeutici della medicina tradizionale, talora anche
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associandoli alla terapia prescritta dal medico, provocando problemi relativi alle modalità di
assorbimento, distribuzione, metabolismo ed eliminazione di un farmaco (farmacocinetica) e della
sua efficacia.
In molte culture, poi, le donne dipendono dal parere del marito per accedere alle cure, hanno
difficoltà a sottoporsi ad una visita con un medico di sesso maschile, se non viene loro assicurata la
presenza di un medico donna spesso evitano o riducono il numero di visite per lo screening dei tumori
femminili, così come per i controlli in gravidanza, mettendo a rischio la loro salute e quella del
neonato.
Immigrati provenienti da alcuni paesi musulmani non accettano di essere visitati o curati da medici o
altro personale sanitario che non sia dello stesso sesso del paziente.
Nel caso delle donne oltre al rifiuto di farsi soccorrere da personale sanitario maschile c’è il ricorso
alla delega all’accompagnatore maschio (padre, marito, fratello) sia per l’elencazione dei sintomi sia
per le prescrizioni terapeutiche. Si è visto anche che individui di sesso maschile, appartenenti ad
alcuni gruppi di immigrati, evitano di recarsi dal medico o al pronto soccorso, anche in condizioni
patologiche estreme, perché questo sminuirebbe il ruolo sociale dell’individuo nella comunità.
L’appartenenza di genere per alcune confessioni religiose, può limitare comunque l’accesso ai servizi
sanitari. Ad esempio, le donne induiste non si recano dal ginecologo se non alla fine della gravidanza;
le donne buddiste desiderano essere visitate solo da personale dello stesso sesso, e ai monaci è
proibito essere accuditi da personale di sesso femminile.
Per quel che riguarda i minori, si registra la difficoltà dei bambini, dei ragazzi o delle ragazze a farsi
visitare da medici dell’altro sesso, difficoltà e imbarazzo che esiste anche per la presenza della madre
o del padre rispettivamente, durante la visita dal pediatra. Non di rado le ragazze chiedono di
rimanere da sole col medico, non sapendo che, per legge, i minori devono essere visitati sempre in
presenza di un genitore.
Gravissime poi sono le evidenze del persistere di pratiche chirurgiche tribali illegali, pur non dettate
da imposizioni di carattere religioso, seguite da alcuni gruppi minoritari, quali le circoncisioni e le
mutilazioni parziali o totali dei genitali femminili, effettuate in casa con strumenti impropri in
condizioni igieniche precarie, che mettono in serio pericolo la stessa vita dei minori e necessita di
ricorso al nostro SSN in condizioni tali da essere trattati in emergenza.
La non conoscenza da parte del personale sanitario delle tradizioni culturali ancestrali può
determinare discriminazioni ed allontanare gli utenti stranieri dai servizi, come accade per le donne
portatrici delle Mutilazioni Genitali femminili (MGF) che spesso durante la visita ginecologica vengono
sottoposte ad esclamazioni tipo: “aiuto che ti hanno fatto”, “ti hanno rovinata”, “immagina che
dolore”.
Molte donne provenienti dal Corno d’Africa, zona di alta incidenza della pratica di MGF, si lamentano
di venire sottoposte a doppia vittimizzazione ogni volta che vanno in ambulatorio ginecologico e
riducono le visite per la prevenzione dei tumori femminili.
È importante che il personale sanitario conosca le norme in vigore sulla protezione umanitaria, se
rileva che una donna è portatrice di MGF, che ha subito pratiche nocive alla sua salute e riportato
gravi lesioni che hanno minato la sua integrità psico-fisica, può certificare la presenza di MGF o altre
lesioni nocive.
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Il personale sanitario può informare l’utenza proveniente dai Paesi a rischio di MGF sul diritto delle
vittime di presentare una richiesta di asilo poiché la violenza contro le donne è riconosciuta come una
forma di persecuzione posta dal legislatore alla base del riconoscimento della protezione
internazionale (discriminazione di genere).
Nel rispetto del principio del non-refoulement le donne vittime di violenza, di MGF, di matrimoni
forzati, indipendentemente dal loro status, non devono essere rinviate verso Paesi dove la loro vita
potrebbe essere esposta al rischio di torture o di trattamenti inumani e degradanti (art. 61 della
Convenzione di Istanbul).
Il personale sanitario formato può certificare le varie forme di violenza subite dalle donne migranti,
questa documentazione è importante per facilitare loro il riconoscimento per la protezione
umanitaria e lo status di rifugiata. Alle donne deve essere garantito un regolare e tempestivo accesso
alla informazione sui loro diritti in una lingua a loro comprensibile. L’Unicef stima che nel mondo ci
sono 125 milioni di donne che vivono con le sequele delle MGF. Secondo le stime delle NU 200 milioni
di donne e bambine nel mondo hanno sofferto di varie forme di mutilazioni genitali.
Questi aspetti pongono temi particolarmente complessi nelle relazioni con le popolazioni di migranti
o di origine migrante, e implicano la necessità di un approccio geografico, fenomenologico e
personalizzato nella valutazione delle strategie da mettere in atto in merito a prevenzione, accesso
alle cure, interventi terapeutici, che devono necessariamente tenere conto anche delle
problematiche riguardanti il ruolo sociale riservato agli individui appartenenti ai diversi sessi da
confessioni e culture diverse.
La conoscenza di tutte le criticità può offrire gli strumenti necessari a garantire il superamento di
eventuali discriminazioni e offrire un’adeguata offerta da parte del SSN a tutti, indipendentemente
dalla cittadinanza. Occorre pertanto porre le basi per una sanità pubblica che ponga al centro la
persona nel suo complesso, una sanità transculturale, che sia capace di accoglienza e di fornire servizi
di prevenzione, diagnosi e cura a tutte le persone presenti sul territorio nazionale indipendentemente
dalla religione professata, dalla etnia, dalla cultura del paese di provenienza, dalla condizione
economico-sociale e, non da ultimo dall’appartenenza di genere
3. LA MEDICINA TERRITORIALE
La migrazione è un fenomeno strutturale dei nostri tempi, e per questo la tutela della salute della
popolazione straniera diventa un atto essenziale ed imprescindibile di salute pubblica, che deve
essere garantito e deve realizzarsi in tutte le politiche sociosanitarie; questo non solo perché il diritto
alla salute è un diritto fondamentale e inalienabile delle persone, ma anche e soprattutto perché
difendere la salute dei migranti significa difendere quella dell’intera comunità. Il modo in cui viene
organizzata ed erogata l’offerta sanitaria assume quindi un ruolo centrale, in quanto può essere allo
stesso tempo veicolo di meccanismi che generano disuguaglianze e malattie, o essere parte di una
soluzione.
L’accesso alle cure per la popolazione immigrata in Italia è tutelato da una delle legislazioni più
inclusive nel panorama europeo e mondiale. Nonostante questo, l’interpretazione e l’applicazione
della normativa sull’accesso alle cure per le persone straniere sono altamente disomogenee sul
territorio, sia a livello nazionale che all’interno delle stesse Regioni/Province autonome. Diventa
quindi necessario riaffermare che i principi fondamentali del Servizio Sanitario Nazionale
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(universalità, globalità ed equità) sono alla base della realizzazione del diritto alla tutela della salute,
tutelato dall’Art. 32 della Costituzione, e che i principi organizzativi definiti a livello nazionale (la
centralità della persona, la responsabilità pubblica per la tutela della salute attraverso la realizzazione
del Livelli Essenziali di Assistenza – LEA, la collaborazione tra i livelli di governo del SSN, la
valorizzazione della professionalità degli operatori e l’integrazione socio-sanitaria) devono orientare
la programmazione sanitaria su tutti i livelli.
La tutela della salute della popolazione immigrata rappresenta un ambito di lavoro caratterizzato da
complessità e dinamicità, e necessita di strumenti multidisciplinari e integrati che si avvalgono degli
approcci teorici dei determinanti sociali e della promozione della salute.
Negli ultimi decenni si è assistito ad un imponente flusso migratorio proveniente soprattutto dalle
zone dell’est Europa, dall’Asia e dall’Africa verso il sud Europa, e quindi anche verso l’Italia. Molta di
questa popolazione è rappresentata da stranieri residenti di prima generazione (spesso immigrati in
Italia da diversi anni) e dai loro figli nati in Italia. Questo importante gruppo di popolazione è di regola
in possesso di un visto di soggiorno valido e iscritto al Servizio Sanitario Regionale. Si tratta di un
profondo cambiamento demografico, culturale ed economico, che rappresenta una nuova sfida
anche per il sistema dell’assistenza sanitaria primaria, il quale si trova a confrontarsi con popolazioni
profondamente differenti dai residenti di cittadinanza italiana rispetto alle modalità di accesso ai
servizi sanitari – e in particolare all’ambulatorio del medico di medicina generale (MMG) – ma anche
rispetto ai fattori di rischio e all’incidenza di malattie acute e croniche. La letteratura da paesi europei
con esperienza migratoria ormai fortemente stabilizzata, evidenzia come gli stranieri siano più fragili,
e molte malattie croniche abbiano una prevalenza più alta tra gli stranieri rispetto alla popolazione
nativa. Dagli studi condotti nei paesi europei, dove la storia migratoria è ormai fortemente
consolidata, emerge che malattie come ipertensione, diabete, malattia renale cronica, obesità e
sindrome metabolica hanno maggior prevalenza nella popolazione straniera rispetto alla popolazione
nativa. In particolare, gli immigrati provenienti dall’Africa Sub-Sahariana e dal Sud-Est Asiatico
presentono un rischio maggiore di ictus e di malattia renale cronica allo stadio terminale. Secondo la
società italiana di diabetologia il rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2 varia in base alla
provenienza del paese di origine, e risulta essere da tre a cinque volte più alto per chi proviene dal
Sud-Est Asiatico, da due a quattro volte più alto per chi viene dal Medio Oriente e dal Nord Africa, e
da due a tre volte superiore per chi proviene dall’Africa Sub-Sahariana. Complessivamente il rischio
di sviluppare diabete tra i migranti è 55% superiore rispetto agli italiani con caratteristiche
sovrapponibili, anche se gli immigrati sviluppano la malattia in età più giovane. A conferma di ciò uno
studio del 2015 pubblicato dalla rivista ‘Lancet’ fa emergere come gli asiatici del sud, quando vivono
in paesi ad alto reddito, hanno un rischio molto elevato di sviluppare diabete mellito di tipo 2 rispetto
alla popolazione europea, e in genere sviluppano la malattia 5-10 anni prima e con un BMI inferiore.
Tra le malattie dell’apparato respiratorio nel complesso, la prevalenza di asma e di malattie allergiche
negli immigrati provenienti da paesi meno ricchi è inferiore rispetto ai paesi ospiti ad alto reddito,
però il rischio di sviluppare queste malattie aumenta con il tempo di permanenza nel paese ospite, a
dimostrazione del fatto che oltre la predisposizione genetica anche i fattori ambientali giocano un
ruolo determinante nello sviluppo di atopia.
Per quanto concerne la patologia tumorale va evidenziato il fatto che la maggior parte degli immigrati
vengono da zone geografiche (Africa, Centro e Sud America, molte regioni asiatiche e l’Europa
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dell’est) dove ancora non è fortemente consolidato il concetto di screening oncologico per il cancro
della cervice uterina e del colon-retto. Inoltre, ricordiamo che l’infezione da papillomavirus umano è
altamente prevalente nei paesi dell’Africa Subsahariana e dell’Est Europa, e che le persone
provenienti da quest’ultima zona rappresentano la grande maggioranza di immigrate in Italia. In un
articolo del 2015, pubblicato su ‘Quotidianosanita.it’, gli oncologi sottolineano il fatto che meno del
50% delle donne immigrate nella fascia d’età raccomandata si sottopone al pap-test contro le 72%
delle donne italiane. Il 43% (contro il 73% delle donne italiane) effettua regolarmente la mammografia
e solo il 20,7% (contro i 47% dei cittadini italiani) esegue l’esame del sangue occulto nelle feci. Un
altro aspetto da considerare nelle malattie croniche della popolazione straniera sono anche le
infezioni croniche che predispongono a patologie tumorali, come l’epatite B e C, e l’infezione da
Helicobacter Pylori, tutte patologie che hanno maggior prevalenza rispettivamente nei paesi dell’Asia
Orientale e dell’Africa sub-sahariana per l’epatite B, nei paesi del Mediterraneo Orientale e
dell’Europa per l’epatite C, nei paesi dell’Africa, Est Europa, Asia e America Latina per l’Helicobacter
pylori.
Altre malattie croniche con le quali il medico di medicina generale si deve interfacciare sono anche i
disturbi mentali, i disturbi muscolo-scheletrici e dell’apparato gastro intestinale, le malattie genetiche
e le malattie infiammatorie immuno-mediate. In particolare, la letteratura scientifica ha dimostrato
nei migranti un aumento dell’incidenza di disturbi mentali comuni e gravi, come disturbi psicotici,
disturbi dell’umore e d’ansia e disturbi post-traumatici. Tra le malattie genetiche nei migranti,
ricordiamo le emoglobinopatie, come la talassemia, il favismo e l’anemia falciforme, che sono
altamente prevalenti nelle zone geografiche da dove arriva la maggior parte della popolazione
straniera residente in Italia (Africa, Medio-oriente, Sud-Est Asiatico, paesi del Pacifico Occidentale).
Avere una conoscenza sulla vulnerabilità della salute del paziente straniero, conoscere quali patologie
croniche ha maggior rischio di sviluppare e intrecciare tali conoscenze con i fattori di rischio, gli aspetti
culturali e religiosi, aiuta il medico di medicina generale ad offrire un’adeguata assistenza sanitaria.
L’elevato e spesso inappropriato ricorso al Pronto Soccorso rende evidente la presenza di barriere
all’accesso all’ambulatorio del medico di medicina generale: ostacoli linguistici e culturali, barriere
derivanti dai ruoli di genere, aspetti logistici, scarsa conoscenza dei fattori di rischio per le malattie
croniche. D’altro canto l’attenzione ai problemi di salute degli stranieri residenti è spesso distorta
dalla grande enfasi riservata alle malattie di importazione – infettive e non infettive – in assenza di
dati epidemiologici e di un approccio scientificamente e culturalmente solido al paziente straniero.
L’importanza attribuita alle basi genetiche dello stato di salute e malattia degli stranieri è spesso
impropriamente ed eccessivamente enfatizzata e può contribuire essa stessa a sviare l’attenzione
rispetto ad interventi di prevenzione ed assistenza primaria rivolti a patologie evitabili (4-5).
Per ultimo, ma non in ordine di importanza, va considerato il fatto che gli stranieri residenti – anche
se inseriti spesso da diversi anni nel sistema scolastico, produttivo e di sicurezza sociale e sanitaria–
sono coinvolti in maniera marginale in percorsi di cittadinanza o di partecipazione civica attiva e
hanno quindi scarse possibilità di influenzare le scelte di programmazione – anche sanitaria – che li
riguardano.
3a. La comunicazione con gli/le utenti stranieri/e in medicina generale: principali criticità
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Nell’assistere un paziente la comunicazione deve necessariamente essere esaustiva poiché uno
scambio appropriato di informazioni è alla base di un corretto processo diagnostico e di interventi
clinici efficaci. Infatti la relazione che si stabilisce tra medico e paziente, più in generale tra
operatore/operatrice sanitario/a e utente, condiziona la qualità delle cure prestate e il livello
di compliance dell’utente.
La medicina generale è il luogo di primo contatto medico all’interno del sistema sanitario, fornisce un
accesso diretto ed illimitato ai suoi utenti, si occupa di tutti i problemi di salute, indipendentemente
dall’ età, sesso, e ogni altra caratteristica della persona. Questa è una delle peculiarità professionali
elencate nell’Accordo Collettivo Nazionale che regola la disciplina. Il medico di medicina generale,
gate-keeper del sistema sanitario nazionale e diffuso capillarmente su tutto il territorio nazionale è
antenna sensibile della realtà sociale e culturale del nostro paese. Le cure erogate dagli operatori
della medicina generale, longitudinali e continue, sono inoltre basate sull’approccio centrato sulla
persona e fondate sulla costruzione di una relazione protratta nel tempo. Nell’ambulatorio del
medico di famiglia i problemi di salute vengono affrontati nella loro dimensione fisica, psicologica,
sociale, culturale ed esistenziale. Una efficace comunicazione tra medico e paziente è perciò
fondamentale, Le barriere linguistiche e culturali che il medico incontra durante la consultazione con
il paziente straniero rendono necessario uno sforzo aggiuntivo per la costruzione di un’efficace
relazione di cura, il paziente immigrato è per questo motivo considerato spesso un paziente “difficile”.
Il medico di medicina generale deve essere quindi particolarmente attento al superamento delle
difficoltà di comunicazione con questi assistiti, per aiutarli a scoprire e usare correttamente i servizi
sanitari e per poter conquistare pienamente la loro fiducia. In ogni civiltà la concezione della salute è
frutto di una sintesi di storia, consuetudini e tradizioni ma anche leggi e problematiche legate a
eventuali disagi climatico-ambientali e a malattie endemiche.
Negli ultimi anni, accanto agli indicatori di salute abituali (epidemiologici, socio-sanitari, socioeconomici, ambientali, stili di vita), si pone sempre più l’accento sui fattori culturali. L’antropologia
medica evidenzia come gli individui in ogni contesto sociale percepiscano, interpretino e affrontino
la malattia e la salute con modalità strettamente connesse al vissuto personale e all’ambiente socioculturale di appartenenza. Per diverse popolazioni, africani e asiatici, la percezione di malattia è la
rottura di un equilibrio che può essere divino, energetico o psichico-relazionale (es. in Africa, dove le
cause di malattia vengono spesso ricercate in interventi di tipo sovrannaturale non solo sull’individuo
ma anche nell’intera comunità). Abitudini radicate come il digiuno del ramadan nel mondo
musulmano influenzano significativamente la vita delle persone, soprattutto se portatori di patologie.
Le medicine tradizionali spesso si integrano con quella “occidentale”, gli africani hanno conoscenza
ed esperienza di entrambe e non hanno difficoltà ad accettare cure da medici italiani; in Cina, dove
non esiste una medicina di base, patologie del tutto assimilabili a quelle che si vedono negli
ambulatori italiani di medicina generale afferiscono alle strutture ospedaliere e tutti gli ospedali
hanno dipartimenti di medicina tradizionale cinese accanto a quelli di medicina occidentale e il
paziente può scegliere dove rivolgersi. Le maggiori problematiche si incontrano solitamente nel far
comprendere le cure preventive, gli stili di vita salutari e la necessità di controlli dopo un intervento
o la somministrazione di una terapia. Tra tutte, l’immigrazione cinese riscontra in Italia un maggior
numero di problemi di integrazione rispetto ad altre popolazioni, soprattutto a causa della lingua.
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Strategie alternative di comunicazione frequenti sono l’aiuto da parte di traduttori non professionisti,
spesso familiari del paziente che lo accompagnano alla visita, oppure l’utilizzo di traduttori informatici
simultanei (uso diffuso soprattutto tra i medici più giovani) e i mediatori culturali (soprattutto nelle
città). Purtroppo a tutt’oggi la disponibilità dei traduttori non è stata data per la medicina generale,
ma essi vengono utilizzati soprattutto in reparti ospedalieri. In una ricerca dell’Università di Siena su
stranieri provenienti da 25 differenti paesi e che risiedono in Italia da molto tempo, si evidenzia che
la totalità degli intervistati dichiara di avere un medico di famiglia, e il livello di soddisfazione per il
servizio è considerato abbastanza o molto alto nel 44% dei casi, dato positivo poiché la relazione con
questa figura rappresenta un elemento essenziale del processo di integrazione e perché l’ambulatorio
è percepito come luogo della parola, dove si cerca un riconoscimento, un legame col mondo esterno.
4. CARATTERISTICHE E PROBLEMATICHE DELLA IMMIGRAZIONE FEMMINILE
Negli ultimi anni in Italia c’è stato un significativo incremento della presenza delle donne nei flussi
migratori, fenomeno che sta assumendo caratteristiche sempre più strutturali che richiedono un
aggiornamento nell’organizzazione dei servizi e nelle competenze interculturali, nell’analisi delle
relazioni genere-specifiche da parte del personale sociosanitario, per migliorare l’ accoglienza della
nuova utenza, assicurare loro l’accesso ai servizi sociosanitari e fornire adeguate risposte alla
specificità dei loro bisogni di salute.
Dai dati del Ministero degli interni nel 2019 ci sono state 43.783 richieste di asilo di cui 32.085 uomini
e 11.698 donne.
Gli individui possono emigrare perché desiderano una vita migliore, per fuggire la povertà, le
persecuzioni politiche o per pressioni sociali e famigliari. Spesso é l’interazione di questi fattori che
influenza l’esodo ed ognuna di queste variabili incide diversamente sulle donne e sugli uomini.
I ruoli di genere, le relazioni e le diseguaglianze incidono su chi emigra e perché, agiscono sulla vita
dei migranti stessi, su come e da chi viene presa la decisione ed hanno un impatto sia sulle zone di
accoglienza che su quelle di provenienza.
La migrazione femminile in passato era motivata dai ricongiungimenti famigliari, le donne vivevano
relegate all’interno delle famiglie, non conoscevano la lingua locale né i loro diritti. L’invecchiamento
della popolazione italiana ha incrementato la domanda del lavoro di cura attirando donne dai paesi
dell’Europa dell’Est.
Negli anni novanta in Italia è iniziato un incremento di migrazione esclusivamente femminile, donne
che decidono di migrare da sole lasciando a casa figli e marito, dovuto alla crescente richiesta di lavoro
di cura per anziani, bambini e lavori domestici.
Meno visibili rispetto agli uomini, le donne rappresentano oggi in media più della metà della
popolazione immigrata, seppur con dinamiche territoriali fortemente differenziate e con una grande
eterogeneità in base al paese di provenienza: la quota di presenze femminili passa da valori inferiori
al 30% tra gli immigrati provenienti dal Bangladesh o dall’Egitto fino ad oltre il 78% nel caso
dell’immigrazione Ucraina.
In questo scenario ad ostacolare l’accesso ai Servizi Sanitari per le nuove migranti interferiscono le
discriminazioni derivanti dalle norme in essere in materia di migrazione che sovente ostacolano il
riconoscimento del loro stato di rifugiate, la loro possibilità di accedere alla regolarizzazione del
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soggiorno ed uscire dall’invisibilità nel territorio italiano. Il loro mantenimento nelle condizioni di
irregolarità è uno dei fattori rischio di salute poiché aggrava la loro condizione di dipendenza e
sfruttamento nel contesto del mercato del lavoro, limita la loro libertà di movimento e le mantiene
nei circuiti della tratta di esseri umani per finalità di sfruttamento sessuale, così come nel lavoro.
Considerato ciò, integrare l’approccio di genere culturalmente adattato nell’organizzazione dei servizi
sanitari, è un’innovazione necessaria per assicurare adeguate risposte ai bisogni di salute della
popolazione migrante, per migliorare l’accesso alle cure, per garantire la tutela della salute delle
donne migranti in generale e delle loro famiglie.
Come sottolinea l’O.M.S. la valutazione dei ruoli e delle relazioni con attenzione al genere è un fattore
determinante ed essenziale per la salute, per tutelare il benessere dei beneficiari e la loro percezione,
per promuovere la salute psico-fisica, per prevenire l’insorgenza delle malattie, per favorire
l’adesione ai protocolli terapeutici e migliorarne la loro efficacia.
La “femminilizzazione” dei flussi migratori in Italia ha comportato molti cambiamenti nelle relazioni
familiari e trasformazioni dei ruoli e relazioni di potere economico all’interno della coppia. Negli ultimi
anni infatti nei servizi a cui accedono le donne straniere, è emerso il fenomeno della denuncia da
parte delle donne di violenze e maltrattamenti all’interno delle famiglie. L’applicazione ‘rigida’ delle
linee guida nei confronti della violenza di genere elaborata dalle Reti antiviolenza spesso non tiene
conto della componente transculturale. Inoltre, proprio in considerazione delle rappresentazioni
culturali che alcune nazionalità hanno della famiglia (Maghreb, Bangladesh, Sri Lanka), diventa
indispensabile poter lavorare con i maschi maltrattanti, che spesso all’ interno di una famiglia
immigrata, hanno perso il ruolo di ‘fornitore di sussistenza’ per moglie e bambini, creando una
possibile causa di ‘violenza e maltrattamento’. La relazione terapeutica con donne che hanno vissuto
esperienze traumatiche come nel caso della violenza di genere o di tratta ai fini dello sfruttamento
sessuale è un approccio complesso che richiede insieme alle necessarie competenze tecniche, ascolto
e attenzione per individuare e avviare ad un percorso di aiuto.
Un secondo aspetto che diventa indispensabile per migliorare la salute delle donne migranti è aiutare
le donne straniere ad accedere ai servizi socio-sanitari territoriali e ospedalieri che si occupano di
salute della gravidanza (consultori e ospedali), garantendo l’apertura degli ambulatori anche nel
pomeriggio, infatti molte di loro hanno il giovedì pomeriggio come giorno di riposo da contratto.
Adattare gli orari di apertura degli ambulatori agli stili di vita delle donne straniere residenti migliora
l’accesso anche delle italiane.
Dalla letteratura e dall’esperienza degli operatori, le donne straniere effettuano meno visite in
gravidanza e meno ecografie rispetto alle donne italiane e effettuano la prima visita più tardivamente,
talora compromettendo le possibilità di diagnosticare precocemente e monitorare le condizioni
cliniche che deviano dalla fisiologia e identificare problemi fisici o di carattere sociale pre-esistente (il
2.65% delle italiane e l’11.5% delle straniere effettua il primo controllo dopo la 12° settimana). È
necessario inoltre garantire la tutela della maternità consapevole, favorendo la conoscenza e la piena
accessibilità dei metodi contraccettivi e garantendo l’accesso all’Interruzione Volontaria di
Gravidanza
Vi è una netta differenza nell’adesione ai programmi di screening per il carcinoma della mammella e
il cervico-carcinoma nell’adesione tra la popolazione italiana e quella straniera. Sono allo studio
modalità di miglioramento della comunicazione delle campagne di prevenzione, ma l’attenzione va
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rivolta alle donne non iscritte al SSN e non residenti perché più a rischio, non essendo mai state
sottoposte a controlli precedenti e provenendo da paesi ad alta endemia per cervico-carcinoma.
5. DISUGUAGLIANZE E ALTRE MINORANZE
Il problema delle minoranze non si esaurisce ovviamente con le questioni legate ad “etnia” e religioni.
In un paese come l’Italia in cui la salute è un diritto di tutti, altre minoranze debbono essere
considerate rilevanti. Citiamo qui l’esempio delle comunità Rom e Sinte.
Una cronaca del 1400 ci offre la prima testimonianza della presenza delle popolazioni Rom e Sinte in
Italia: si tratta del soggiorno di una compagnia di “egiziani”, che giungono a Bologna nel luglio del
1422. Le comunità rom e sinte si sono da sempre caratterizzate per varietà e differenze a livello
linguistico, religioso, nell’organizzazione sociale e nei mestieri praticati (tra alcuni di quelli considerati
“tradizionali” si citano la lavorazione dei metalli, il commercio di cavalli, artigianato, produzione
musicale), risultato di un secolare scambio con le popolazioni di contatto e di politiche di inclusione,
assimilazione e persecuzione. Di particolare rilevanza l’istituzione della schiavitù – praticata nei
Principati di Moldavia e Valacchia fino a metà ‘800 e che rendeva i Rom sottoposti e di proprietà di
nobili, monasteri e dello stato. I linguisti hanno da secoli affermato la connessione tra la lingua romanì
(o romanes), con alcune varianti linguistiche del Nord-Ovest del subcontinente indiano, confermando
l’origini e la migrazione dall’Asia verso l’Europa intorno all’anno 1000. La pagina più tragica della storia
di Rom e Sinti in Europa è rappresentata dalle persecuzioni nazifasciste nel corso della Seconda
Guerra Mondiale, che ha portato allo sterminio di oltre 500 mila Rom e Sinti.
Nel nostro Paese, come stimato dal Consiglio d’Europa, sono circa 120.000/180.000 persone (le stime
sono complesse anche in relazione alle questioni delle rilevazioni del “dato etnico” e in
considerazione che Rom e Sinti rappresentano una minoranza non riconosciuta de iure). L’indagine
condotta da ANCI e ISTAT su impulso dell’UNAR negli anni 2013/2014 ha sostanzialmente
ridimensionato i termini di quello che è stato definito come il “sistema dei campi”, analizzando e
identificando il numero delle persone Rom e Sinte che vivono negli insediamenti presenti in comuni
con oltre 15.000 abitanti, in circa 30.000 unità. Il resto di questa popolazione è in gran parte inserita
nel contesto socioeconomico e abitativo ordinario. Non vi sono dati sulla presenza e la frequenza
scolastica (dal 2015 non è riportato il dato nel report sull’integrazione degli alunni con cittadinanza
non italiana, che comprendeva approfondimenti su studenti Rom e Sinti), ma le indagini e le
rilevazioni a disposizione confermano una consistente presenza di minori all’interno di molte
comunità.
In questo quadro va considerata la situazione sociosanitaria in termini di specificità di genere. Ad
esempio, la 7a Conferenza Internazionale delle donne Rom e Sinte organizzata nel 2019 sotto la
Presidenza finlandese del Consiglio d’Europa ha riunito più di 130 donne, provenienti dal mondo
accademico, dalle associazioni e dalle ONG impegnate nel settore. Il tema generale si è concentrato
sull’“Accesso alla giustizia e ai diritti” con seminari su questioni complesse come l’allontanamento di
minori Rom e Sinti dal contesto familiare, il tema dei matrimoni forzati, la prevenzione e lotta alla
violenza domestica contro le donne. Le discussioni hanno portato a una serie di raccomandazioni tra
cui: una valutazione delle modalità di accesso agli strumenti di tutela offerti dal sistema giudiziario da
parte delle donne Rom e Sinti e la necessità di una definizione di indicatori di parità di genere da
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inserire nelle strategie nazionali di inclusione, effettuando un’analisi comparativa dell’impatto delle
politiche e dei programmi tra donne e uomini.
È stata più volte sottolineata la necessità di sviluppare attività di educazione alla salute soprattutto
per sensibilizzare Rom e Sinti circa le misure di prevenzione primaria, quali programmi per la
promozione di uno stile di vita sano e la prevenzione dell’abuso di sostanze, e per il miglioramento
dell’accesso ai servizi di salute mentale e di tutela della maternità. In generale, è indispensabile
coinvolgere maggiormente donne e giovani per aumentare il contatto e la familiarità di tutti con i
servizi. Ad esempio, sono stati prodotti materiali informativi aggiornati in diverse lingue, soprattutto
in merito ai controlli da effettuare in gravidanza, da utilizzare negli ambulatori con l’obiettivo di
migliorare l’alfabetizzazione e l’educazione sanitaria delle donne. Da quanto indicato nella letteratura
di settore e da rilevazioni sul terreno in diversi contesti regionali, sono infatti pochi i controlli in
gravidanza e, più in generale, è scarsa l’attenzione alla salute sessuale e riproduttiva da parte delle
donne. In alcuni contesti l’esclusione sociale e le situazioni di marginalità incidono sulla vita delle
donne Rom e Sinte, rendendole ancor più esposte a discriminazioni ed esclusione nell’accesso ai
servizi, alla formazione, al lavoro.
La discriminazione a cui sono sottoposte assume dunque una valenza ancora più accentuata e
multifattoriale, derivante dalla contemporanea presenza di elementi legati all’ antiziganismo e alla
discriminazione di genere. Nonostante la mancanza di dati statistici, vi è un sostanziale accordo tra
gli esperti europei che hanno partecipato allo studio sull’ampiezza di tali fenomeni di discriminazione
nelle varie comunità nazionali analizzate. A ciò contribuisce il basso livello di istruzione delle donne
che è legato a diverse forme di discriminazione. In alcuni casi le donne Rom che riescono a
raggiungere un elevato livello di istruzione subiscono una duplice forma di discriminazione: da parte
della maggioranza della popolazione e dal proprio gruppo per alcuni pregiudizi persistenti. L’accesso
al mercato del lavoro è a sua volta penalizzato da elementi giuridici, dal basso livello di istruzione e di
professionalizzazione, che porta a circuiti di lavoro sommerso o informale.
Relativamente all’accesso ai servizi sanitari i rapporti nazionali in alcuni Paesi europei hanno
evidenziato la diffusione dei pregiudizi tra il personale sanitario o parasanitario che porta in alcuni
casi alla segregazione delle donne Rom in spazi a sé nell’ambito degli ospedali e dei reparti
maternità: un esempio significativo viene dall’Ungheria dove emerge che le indagini condotte sul
tema hanno dimostrato la persistenza di forti pregiudizi tra gli operatori della sanità rispetto ai
costumi, alle tradizioni e al modello di fertilità delle donne Rom. L’Ungheria è infatti uno dei paesi in
cui sono stati denunciati alla Corte di Strasburgo fenomeni di sterilizzazione forzata. In alcune realtà
le donne Rom non sono neppure libere di uscire dal proprio insediamento o abitazione senza la
supervisione della suocera o di altri membri del contesto familiare.
In conclusione, la struttura così fortemente patriarcale e la marginalità di alcuni contesti socioabitativi porta in molti casi alla subordinazione della donna e all’accettazione sociale della violenza
domestica quale naturale componente della dinamica familiare. Gli sforzi di molti paesi, inclusa
l’Italia, nella integrazione sociosanitaria di uomini e donne Rom e Sinti passa quindi per la parità di
genere anche se alcune specificità associate alle differenze tra i due sessi sono state recentemente
individuate ma non differiscono, come ovvio, da quelle riscontrate nella popolazione non-Rom.
Sono stati individuate significative differenze tra Rom e non Rom in termini di profilo dietetico e stato
nutrizionale ma le differenze tra i due generi sono state poco studiate. Alcuni studi di genetica hanno
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infine evidenziato come il sesso e i cromosomi sessuali in particolare abbiano influenzato le storie
cliniche delle persone Rom e Sinte. In breve, l’analisi della letteratura ci segnala che lo studio clinico
di queste minoranze e le eventuali differenze di genere non sono state affrontate in modo specifico
dalla comunità scientifica. Quel che appare evidente è però l’associazione tra discriminazione sociale
di questa minoranza, in particolare per quel 20-30% di Rom e Sinti che risiedono in contesti precari
ed isolati e che vivono con uno scarso grado di inclusione sociale, a cui si aggiungono elementi di
discriminazione intersezionale subiti dalle donne e la poca attenzione a molte norme sanitarie nella
prevenzione e nelle terapie che sono comuni ad entrambi i sessi e che derivano non solo da fattori
sociali ma anche da una insufficiente attenzione da parte del SSN a queste minoranze.
6. ALCUNE NECESSITÀ E RACCOMANDAZIONI PER I MEDICI E PERSONALE SANITARIO
FORMAZIONE
1. Formare ad un approccio genere-specifico e culturalmente adattato gli operatori sanitari,
sociali e scolastici, i mediatori culturali, gli operatori dei centri di accoglienza per richiedenti
asilo.
2. Migliorare la competenza interculturale degli operatori socio sanitari attraverso I‘integrazione
e l’approfondimento delle tematiche relative i) alla medicina interculturale, ii) alla
comunicazione con pazienti provenienti da altre culture, iii) ai Sistemi Sanitari nel Mondo e iv)
ai programmi di insegnamento di tutte le professioni sanitarie. Formazione finalizzata a
superare i pregiudizi che interferiscono con l’atto medico e con la relazione
operatore/immigrato.
3. Ottimizzare la collaborazione con i mediatori culturali.
4. Formare da una parte alla conoscenza delle peculiarità sanitarie della popolazione immigrata
(prevalenza delle principali patologie) e dall’altra alla conoscenza e comprensione delle
abitudini culturali che possono essere d’ostacolo alle cure.
INFORMAZIONE
5. Rafforzare l’empowerment di uomini e donne straniere e delle marginalità residenti (per
esempio ROM) attraverso partnerships con i servizi del privato sociale anche attraverso corsi
di lingua, educazione alla salute, informazioni sul SSN e sui servizi di prevenzione, corsi
professionali.
6. Partecipare come operatori sanitari ai corsi di educazione alla salute per migliorare le
conoscenze sulle prime modalità per affrontare i disturbi più comuni sia agli adulti che ai
bambini (febbre, mal di pancia,tosse, raffreddore, etc..).
7. Promuovere corsi dove spiegare come distinguere le patologie acute per le quali accedere al
PS ed i cosiddetti codici bianchi per i quali rivolgersi al MMG, ed in che modo farlo nelle varie
realtà regionali.
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8. Promuovere sinergie sul territorio con le associazioni delle comunità straniere, delle
minoranze e con le comunità religiose con una particolare attenzione alle specificità di genere.
9. Creare occasioni di confronto ed ascolto sul territorio per individuare le maggiori criticità
etnico-religiose sulla salute anche per quanto attiene alle “usanze” a rischio sanitario (es
circoncisioni, mutilazioni).
10. Riconoscere e mappare le differenze regionali e locali nei servizi dedicati ai migranti ed alle
minoranze.
11. Organizzare il RECUP con risposta multipla e possibilità di scelta nelle principali lingue
veicolari.
12. Assicurare la traduzione delle indicazioni sui servizi socio sanitari, il consenso informato ed i
protocolli terapeutici, nelle lingue veicolari dell’utenza.
COMUNICAZIONE
13. Promuovere sportelli di ascolto diffusi nei diversi servizi sanitari, con mediazione linguistica e
culturale, genere-specifica per individuare tempestivamente le problematiche sanitarie e, ove
possibile, dare risposte.
14. Assicurare la raccolta dati per il monitoraggio della “qualità” dei servizi, con schede di
valutazione compilate dall’utenza straniera.
15. Sviluppare un Portale multilingue sulla salute specificamente dedicato ai migranti, agli
stranieri residenti ed alle minoranze vulnerabili (per esempio ROM) con attenzione alle
specificità di sesso/genere.
16. Assicurare negli studi medici di gruppo, laddove la popolazione immigrata sia molto presente,
la presenza di almeno un operatore di sportello preparato all’accoglienza.
7. ATTENZIONI PER GLI OPERATORI SANITARI
1. Sesso del paziente. Molte religioni hanno serie difficoltà, anche in momenti di emergenza, a
farsi visitare o anche solo “seguire” e curare da operatori sanitari dell’altro sesso. Quando
possibile chiedere ad un collega o ad una collega di intervenire.
2. In alcune culture e religioni per gli uomini è considerato una diminutio sociale esser malati. È
quindi necessario prestare la propria opera cercando di convincere il paziente a farsi curare
ad esempio per malattie croniche ad esempio metaboliche.
3. In alcune culture e religioni la malattia è intesa come punizione divina. È quindi necessario
considerare questo aspetto nella cura del paziente.
4. Nella religione Sikkista il taglio dei peli è proibito. Ciò può determinare ovvi problemi sanitari.
5. Nella religione islamica durante il periodo del Ramadan non possono essere assunti cibi se
non in particolari condizioni. Non devono assolutamente essere assunti farmaci neanche
mediante gocce dall’orecchio e dal naso, supposte o farmaci per via inalatoria perché questo
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potrebbe interrompere il digiuno. Mentre nei soggetti in buona salute il Ramadan rappresenta
un’ottima opportunità per perdere peso, migliorare il profilo lipidico e smettere di fumare,
nelle persone con diabete il digiuno prolungato può causare alterazioni dei meccanismi di
omeostasi glucidica.
6. In alcune religioni e culture l’alcool è proibito anche come componente farmaceutico.
7. In molte culture e religioni è proibito cibarsi di alcune carni, es maiale, e in molti casi i pazienti,
ad esempio buddisti, sono vegetariani. Queste regole, anche se di tipo “alberghiero”, possono
inficiare la presa in carico del paziente.
8. Il fine vita e le salme vanno trattate in modi molto diversi da quelle in uso in Italia in varie
culture e religioni (ebraica, islamica, etc). Aver cura dei pazienti anche in questi particolari
momenti è particolarmente importante dal punto di vista etico-legale (vedi Manifesto
interreligioso sul fine vita, https://www.sgi-italia.org/fine-vita/)
9. Per molte religioni e culture il paziente deve avere alcuni oggetti con se (ad esempio una
collana particolare per donne Sik).
10. Numerosi fedeli di religione induista sono vegetariani ed in generale tendono ad evitare il
consumo di latte, carne e uova. Le donne sposate indossano una collana che ha un valore
molto sacro, essa non dovrebbe mai essere rimossa senza il loro consenso, lo stesso vale per
il filo sacro che alcuni uomini portano intorno al petto.
11. Alcuni medicinali potrebbero non essere adatti per i pazienti indù poiché derivati da prodotti
di origine animale.
12. Come descritto sopra gli screening oncologici non sono abitualmente effettuati se non da una
minoranza. Vanno quindi attivamente consigliati.
13. Alcune culture e religioni, specie islamiche subsahariane, considerano le mutilazioni genitali
femminili come un obbligo religioso stabilito dal Corano. L’anamnesi deve quindi tener conto
di questa possibilità ed eventualmente provvedere a organizzare dei percorsi sanitari specifici.
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